Il fallimento è un evento che rappresenta per l’imprenditore una momento tragico, di inaudita gravità.
La parola fallimento ha una connotazione decisamente negativa: fallire significa andare incontro ad un insuccesso, che vanifica tutti gli sforzi compiuti per realizzare un’impresa. Per di più, il verbo fallire ha in sé il senso di “commettere un colpa”.
Il fallimento è un errore, che genera una colpa: chi fallisce, non soltanto sbaglia, ma resta macchiato per sempre.
Chi fallisce è esposto alla pubblica umiliazione, perché non è riuscito ad incarnare quei valori che la società considera come massimamente apprezzabili.
Questa concezione è tipica della cultura europea, Italia compresa. In campo economico, le sue logiche sono tanto più evidenti, perché il fallimento porta con sé la peggiore delle colpe: il debito. Pensate che in tedesco, la parola usata per indicare la colpa, Schuld, significa anche debito!!!
Di fatto, chi conduce la propria impresa al fallimento, lo fa perché non riesce a far fronte ai debiti: l’impossibilità di ripagare i propri creditori è una colpa terribile, che va taciuta, tenuta nascosta come un tempo il concepimento di una ragazza nubile.
Pensateci bene: come vi sentireste voi imprenditori se foste alla soglia del fallimento? I sacrifici di una vita spinti alla bancarotta, i debiti, la delusione, le chiacchiere della gente, la sfiducia dei vostri fornitori, dei partner, dei colleghi … Un tempo siete stati stimati da tutti e adesso, che avete perso tutto, non siete più nessuno, invisibili, derisi, umiliati.
Si dice che errare è umano, perdonare divino, eppure nell’economia del vecchio continente non è così: chi sbaglia – cioè chi fallisce – non può essere perdonato, cioè non gli è concessa l’opportunità di ricominciare.
Affermo, tuttavia, con forza che senza l’errore non c’è progresso.
E per questo sono convinto che da ogni situazione di crisi, da ogni fallimento, si possa uscirne più forti e rinvigoriti. Basta non ripetere gli errori del passato e seguire la giusta direzione, anche aiutati da professionisti come il sottoscritto.
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Spesso, di un fenomeno noi conosciamo il risultato, ma non sappiamo nulla intorno al processo che l’ha generato. Così, la storia non ama menzionare i tentativi falliti, gli errori, i ripensamenti, i binari morti, che hanno costellato anche la strada delle più illustri personalità del passato.
Prendiamo un esempio tratto dal mondo degli affari, che è quello che ci riguarda da vicino.
Voi pensate che Bill Gates abbia costruito il suo impero, con la stessa facilità con cui un uomo beve un bicchiere d’acqua?
In pochi sanno che Bill Gates, prima di fondare la Microsoft, costituì nel 1972 una società di analisi, chiamata Traf-o-Data. Fu un clamoroso insuccesso, un fallimento colossale; eppure servì di insegnamento. Con Traf-o-Data, Gates imparò cosa non doveva fare se voleva avere successo!
Se risaliamo indietro nel tempo, troviamo un altro grande uomo d’affari, la cui vita fu costellata non da uno, ma da una miriade di fallimenti: Thomas Edison. Avete capito bene! Proprio l’inventore della lampadina!
Prima di giungere al geniale brevetto, la vita professionale di Edison fu una lunga sequenza di idee errate, prototipi inefficaci, errori, delusioni, etc. Ma sappiamo tutti che, alla fine, la lampadina ad incandescenza è stata una delle rivoluzioni tecnologiche del Ventesimo secolo.
Così, possiamo citare una lunga sequenza di grandi imprenditori, uomini d’affari ed inventori, che hanno fallito come uomini e come imprenditori, prima di arrivare al vero successo. Tanto per citarne alcuni: Henry Ford, Steve Jobs, Arianna Huffington, Walt Disney.
Non è un caso che quasi tutte le personalità citate siano statunitensi. Oltreoceano, vi è una concezione molto diversa del fallimento.
Anche in questo caso, lo spirito pragmatico americano sa darci la sua grande lezione: non è pensabile creare un’azienda di successo, senza sbagliare. Gli errori insegnano all’imprenditore ciò che non deve fare, se vuole raggiungere un obiettivo.
Per gli americani, il fallimento è un elemento naturale del mercato. Lo stesso capitalismo americano è un modello insuperato, che straordinariamente fa del fallimento un motore per il successo.
Lo yankee businessman sa che se fallisce può rimontare subito a cavallo e ricominciare daccapo: è il sistema che glielo consente.
Il mercato statunitense è aperto. Se hai un’idea che pensi sia buona, ti viene concessa fiducia: ti viene data una possibilità.
Possibilità significa soprattutto credito. Negli Stati Uniti, il credito non è un diritto inalienabile del creditore: il debitore può sbagliare strada e non riuscire a restituire tutto il denaro prestato. Così vanno gli affari, baby! Oggi sei sulla cresta dell’onda e domani puoi naufragare…
Il fallimento aiuta un paese a crescere: gli imprenditori che escono dalla finestra, possono rientrare dalla porta, più forti e motivati di prima.
In Italia, come in Europa, dovremmo insistere su due punti: prima di tutto, occorre eliminare a livello culturale l’aura di disfatta mitica che circonda il fallimento di un’impresa. L’imprenditore che fallisce non è un reprobo, ma soltanto uno che sbaglia un tentativo (naturalmente, escludo dal mio discorso i casi di fallimento fraudolento).
Per secondo, il fallimento dovrebbe essere riconsiderato dal punto di vista legislativo e giuridico, come un elemento naturale della vita economica di una società.
Solamente un mercato più duttile e malleabile può garantire una maggiore competitività. Le imprese hanno bisogno di sperimentare il nuovo e il nuovo non può essere realizzato senza passare attraverso l’errore.
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